Margherita Grassini Sarfatti (Venezia, 8 aprile 1880 – Cavallasca, 30 ottobre 1961) è stata una critica d'arte italiana, nota per la sua importanza nel panorama culturale internazionale del tempo.
Si formò sugli scritti di John Ruskin leggendo Marx, Turati e Anna Kuliscioff. Nel 1898 sposò giovanissima, a dispetto della famiglia, l'avvocato socialista Cesare Sarfatti, dal quale ebbe tre figli. Conobbe il giovane Benito Mussolini e tra i due iniziò una relazione, dalla quale Mussolini ricevette aiuto nella sua affermazione sociale. Margherita, di fede ebraica, si convertì al cattolicesimo nel 1928. Il rapporto con Mussolini lentamente si deteriorò, ma con l'approvazione delle leggi razziali la sua fuga dall'Italia non venne impedita. All'estero continuò a mantenere interesse per la cultura italiana, ma divenne meno visibile rispetto al periodo precedente. Ritornò in patria solo alla fine del secondo conflitto mondiale.
Ultima di quattro figli, nacque da una ricca e nota famiglia ebraica.[1] Il padre, Amedeo Grassini, era una personalità di grandissimo spicco: avvocato e amico del patriarca di Venezia Giuseppe Sarto (il futuro papa Pio X), condusse, con Giuseppe Musatti, una fiorente carriera imprenditoriale: fondatore della prima società di vaporetti di Venezia (città di cui era consigliere comunale), costituì anche un gruppo finanziario per avviare la trasformazione del Lido in località turistica. Il prestigio dei Grassini crebbe ulteriormente quando lasciarono il Ghetto per trasferirsi nello storico palazzo Bembo, sul canal Grande (1894). La madre si chiamava Emma Levi, cugina di Giuseppe Levi, padre della scrittrice Natalia Ginzburg[2].
Margherita, già di sua natura assai dotata intellettualmente, ebbe un'ottima istruzione, imparando correntemente quattro lingue. Fu educata in casa e poté usufruire di insegnanti quali Antonio Fradeletto, Pietro Orsi e Pompeo Gherardo Molmenti. Grazie alla posizione del padre, ebbe inoltre modo di conoscere personalmente numerosi letterati quali Israel Zangwill, Gabriele D'Annunzio e i Fogazzaro (Giuseppe e Antonio).
Fu Antonio Fogazzaro ad avvicinarla al cristianesimo. Comunque, anche dopo la conversione, Sarfatti mantenne sempre il proprio ebraismo, come retaggio puramente culturale, «come bagaglio dottrinale e intellettuale da sfruttare»[3]. Ebbe un approccio personale col cristianesimo adogmatico e liberale di Fogazzaro, del quale ammirò soprattutto la critica del positivismo e dello scientismo, il suo misticismo e l’irrazionalismo volontarista, capace di coniugare tradizione e modernità, posizioni che si confacevano con la sua indole e che l'avevano spinta ad allontanarsi dall'ortodossia ebraica.
Nel 1898 sposa l'avvocato Cesare Sarfatti, militante socialista, e ne assume il cognome, con cui firmerà tutte le sue opere. Nel 1902 si trasferisce a Milano, dove inizia a scrivere sull'Avanti! della domenica. E nel 1909 è assunta come responsabile[4] della rubrica di critica d'arte dell'Avanti!, organo di stampa del Partito socialista italiano. Tra il 1902 e il 1905 collabora con il periodico Unione femminile, organo di stampa dell'omonima associazione, impegnata per l'emancipazione femminile. Studia il pensiero di Vilfredo Pareto, Georges Sorel, Bergson e Charles Péguy. Sarfatti era convinta che occorresse «educare attraverso l’arte, la letteratura, le iniziative umantario-filantropiche[5].
Nel 1912 Anna Kuliscioff fonda e dirige la rivista La difesa delle lavoratrici alla quale sono chiamate a collaborare le donne socialiste italiane; anche Sarfatti si rende disponibile a fornire il suo contributo sia con articoli, sia con sovvenzioni personali in denaro. Nello stesso anno incontra Benito Mussolini, allora dirigente del PSI e in procinto di divenire direttore de L'Avanti!, e nasce tra i due una relazione che si trasformerà in un sentimento più profondo, durato vent'anni[4]. Tale sentimento porterà Sarfatti sempre più vicina alle posizioni di Mussolini, in qualsiasi modo queste si evolvano[6], fino a divenire, nel 1918, redattrice de Il Popolo d'Italia, quotidiano fondato e diretto dal futuro dittatore.
Il 28 gennaio 1918 suo figlio Roberto, volontario nella prima guerra mondiale, caporale nel VI Reggimento Alpini, viene ucciso, non ancora diciottenne, nel corso di un assalto sul Col d'Echele, sull'altopiano di Asiago, durante la prima battaglia dei Tre Monti. A ricordo dell'episodio, per il quale al giovane verrà conferita una medaglia d'oro al valor militare, Margherita fa erigere sul luogo dove Roberto era morto un monumento funebre, opera dell'architetto Terragni[7].
Il suo salotto milanese intorno agli anni venti è frequentato da molti intellettuali ed artisti. Il salotto era uno dei più esclusivi della città, al numero 93 di corso Venezia[4], che Sarfatti mirava a riportare a un ruolo di centralità culturale a livello nazionale[8]. Muovendosi in questa direzione, nel salotto accoglie il gruppo futurista, letterati come Massimo Bontempelli con Ada Negri, la coppia di scultori Medardo Rosso e Arturo Martini. Talvolta interviene lo stesso Mussolini[4].
Nello stesso periodo diviene direttrice editoriale di Gerarchia, la rivista di teoria politica fondata da Benito Mussolini. Nel 1922 fonda con il gallerista Lino Pesaro e gli artisti Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi il cosiddetto Gruppo del Novecento, le cui opere vengono esposte per la prima volta nel 1923 alla galleria Pesaro di Milano. A causa della sua adesione al fascismo - sancita nel 1925 dalla sottoscrizione al Manifesto degli intellettuali fascisti - alcuni artisti si allontanano, non condividendo il progetto di Sarfatti di contribuire alla nascita di una cosiddetta arte fascista.
Tuttavia, nonostante le polemiche, nell’ambito della XCIII Esposizione degli Amatori e Cultori di Belle Arti di Roma organizza la successiva mostra dal titolo Dieci artisti del Novecento italiano (Roma, 1927), nella quale fa esporre i principali pittori romani, fra i quali Bartoli, Ceracchini, Guidi, Socrate, Trombadori, Luigi Trifoglio[8][9]. Alla mostra non mancano di partecipare tutti i maggiori artisti italiani.
Divenuta vedova nel 1924, Sarfatti si dedica alla stesura di una biografia di Mussolini. Il testo - rivisto accuratamente dallo stesso Mussolini[10] - è dapprima pubblicato nel 1925 in Inghilterra col titolo The Life of Benito Mussolini e l'anno successivo in Italia col titolo Dux. Per la notorietà del personaggio e per la familiarità dell'autrice con il dittatore, il libro ha un enorme successo di vendite (un milione e mezzo di copie vendute solo in Italia[11] e 17 edizioni) e verrà tradotto in 18 lingue, compreso il turco e il giapponese. Per quanto discreta (e non esclusiva), la relazione tra Sarfatti e Mussolini continua nel decennio successivo, fatta di incontri segreti a Palazzo Venezia, non mancando di suscitare in più di un'occasione le gelosie di Rachele Mussolini.[12] Nel 1929 Margherita Sarfatti si trasferisce a Roma con i figli. Nel 1932 però, Mussolini fa un improvviso voltafaccia e la scrittrice viene allontanata dal Popolo d'Italia; cerca un nuovo giornale e approda alla Stampa di Torino[13][14].
Nel gennaio 1934 Sarfatti ottiene il passaporto[15] e il permesso di espatriare. Lascia la direzione editoriale di Gerarchia e si reca negli Stati Uniti d'America per un lungo viaggio. È accolta ufficialmente alla Casa Bianca da Eleanor Roosevelt con gli onori riservati alla moglie di un capo di Stato. Alla NBC spiega il fascismo. Ma i rapporti con Mussolini si deteriorano rapidamente in quegli anni, con la svolta intransigente della politica fascista. In una relazione in cui politica e passione furono sempre strettamente connessi, anche la separazione fu al tempo stesso politica e privata. Sarfatti si oppone all'avventura coloniale e all'alleanza con Hitler; Claretta Petacci ne prende il posto di prima amante. Nel 1936 Mussolini le fa intendere che non sarebbe stata più ricevuta a Palazzo Venezia.[16]
Con la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, Sarfatti si allontana dall'Italia. Si trasferisce dapprima a Parigi, ove tiene conferenze sulla letteratura. Ha rapporti con Jean Cocteau, reincontra Alma Mahler, che di lei disse: "Quando la incontrai in Italia era una regina senza corona, ora è una mendicante reale in esilio." Quindi cerca (inutilmente) di andare negli Stati Uniti; alla fine si rifugia, per sei anni, in Uruguay e Argentina, trascorrendo l'estate a Montevideo, dove l'attende il figlio Amedeo, e l'inverno a Buenos Aires e scrivendo per alcuni giornali delle due capitali, divise dall'immenso Río de la Plata. Qui stringe amicizia con il pittore Emilio Pettoruti, le scrittrici (sorelle) Victoria e Silvina Ocampo e il giornalista Natalio Botana.[17][18][19] In Sudamerica comincia a scrivere anche le sue memorie (tuttora inedite), una rivisitazione del suo Dux e dei suoi vent'anni trascorsi a fianco di Mussolini. Inizialmente il titolo avrebbe dovuto essere Mea culpa, poi trasformato in My fault.[20]
La sorella Nella Grassini Errera, rimasta in Italia, è deportata con il marito e muore ad Auschwitz.[21]
Margherita Sarfatti rientra in Italia solo nel 1947, a guerra finita e con il ripristino delle libertà democratiche.
Al ritorno pubblica il libro di memorie Acqua passata, nel 1955[8]. Vive appartata nella sua villa di Cavallasca, presso Como, sino alla morte, avvenuta all'età di ottantun anni, nel 1961. L'archivio di Margherita Sarfatti è conservato all'Archivio del '900 del Mart di Rovereto.
A Margherita Sarfatti Ada Negri dedicò la sua prima raccolta di prose, Le solitarie[22].
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