Il Ritratto di Luca Pacioli, o Doppio ritratto noto anche come Ritratto di Luca Pacioli con un allievo, è un enigmatico dipinto, conservato nella Pinacoteca del museo nazionale di Capodimonte, raffigurante il frate matematico autore della Summa de arithmetica e del De Divina Proportione attribuito in maniera controversa al pittore rinascimentale Jacopo de' Barbari, contrariamente dalla bottega di Alvise Vivarini[1].
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«Se nel cerchio sia descritto il triangolo equilatero, il lato del triangolo è in potenza il triplo del semidiametro del cerchio» |
(Luca Pacioli) |
Ritratto di Luca Pacioli | |
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Autore | Attribuito a Jacopo de' Barbari |
Data | 1495 circa |
Tecnica | olio su tavola |
Dimensioni | 99×120 cm |
Ubicazione | Museo nazionale di Capodimonte, Napoli |
I pochi reperti disponibili non forniscono notizie in ordine alla esecuzione e originaria destinazione ed infittiscono l'aura misteriosa del dipinto.
Le prime notizie documentali sono posteriori di oltre un secolo alla presumibile formazione del ritratto e i dati risalgono a un inventario dell'anno 1631, senza indicare i tempi e modalità di acquisizione, collocazione e conservazione nel palazzo Ducale di Urbino.
Incluso in un elenco di beni del Guardaroba della dinastia dei Della Rovere, la prima inventariazione reca solo mere ipotesi sull'autore e anche i successivi documenti non sono più precisi, riguardando soltanto il trasferimento del dipinto, a metà del XVII secolo, da Urbino a Firenze e dalla stirpe urbinate a quella medicea fiorentina, tramite Vittoria della Rovere-Medici.
Eclissato nei secoli, il dipinto ricompare a inizio del Novecento a Napoli, sempre nel possesso della discendenza dei Medici, nel ramo cadetto di Ottaviano, per giungere a destinazione museale a seguito di esercizio della prelazione dello Stato nel 1903 sulla vendita destinata all'estero, in Inghilterra. Il dipinto fu esposto nel museo partenopeo dal 1957 tra i dipinti provenienti dalla collezione farnese[2].
Se la tradizione storica tace, l'attribuzione è generica e residuale, solo presuntivamente autografa, essendo riferita a incerte interpretazioni delle indicazioni siglate rilevabili sull'anomalo cartiglio raffigurato nel dipinto.
Il dipinto raffigura il francescano Luca Pacioli, matematico e teologo all'età di circa cinquant'anni. Il frate era sicuramente presente a Venezia nel 1493 quando pubblicò la sua opera: Summa de Arithmetica Geometria Proportioni et proportionalità. Il personaggio è dipinto nell'atto di insegnare a un allievo.
Il frate è raffigurato nell'atto di eseguire con la destra segni geometrici con la virgula[3] su di una lavagna che riporta la scritta EVCLIDES, mentre con la sinistra segue le formule riportate sul libro aperto dei XIII Elementi di Euclide[4], sta quindi facendo lezione sulla costruzione dei cinque poliedri regolari. Indossa l'abito francescano color cenere azzurra, stretto in vita dal cingolo. Il giovane allievo è raffigurato a tre quarti, il volto racchiuso nella frangia con lo sguardo diretto all'osservatore. Ha un portamento elegante, nobile ed indossa una camicia rossa con sbuffi coperta da un mantello dalle ampie maniche dove traspare la fodera in pelliccia di lupo cerviero.
Entrambi si pongono di fronte ad un tavolo coperto da un tappeto verde dove sono disposti vari strumenti della professione di insegnante: libri, lavagna, gesso e spugna, un goniometro e un calamaio con calamo e relativo astuccio e un compasso. Sulla tavola vi è anche un cartellino con la scritta IACO,BAR. VIGE/NIS.P 149(5) e una mosca che si posa sopra l'ultima cifra della datazione, ponendo non pochi quesiti. Il disegno preparatorio rilevato dalle indagini radiografiche, presenta una grande diversità fra questo e la sua esecuzione, come tanta diversità è rilevabile dalla stesura della pittura tra i due soggetti. La definizione di ventenne è importante, perché a quel tempo l'autonomia si raggiungeva solo nel venticinquesimo anno di età, e trovare un artista emancipato in età tanto giovane che firmi un'opera di rilevante valore è un fatto che chiede attenzione[5].
Sul tappeto, sopra un grosso libro recante la scritta II R.lVC.BVR, o quello che sembra essere un libro, anche se lo spessore troppo grosso, potrebbe portare alla considerazione di una cofanetto contenente manoscritti del Pacioli[6], vi è anche un dodecaedro di legno, ed un rombicubottaedro di vetro contenente acqua[7], è sul lato sinistro della tela sospeso a una cordicella. Questo di forma semiregolare con 26 basi di cui diciotto quadrate e otto triangolari equilatere.[8] Nella figura si specchia una finestra aperta che si apre su di un lembo di cielo azzurro e di fabbricati, dando la percezione di un centro urbano, e date le più facce del solido, si ripete lo specchiarsi su più lati, mentre il resto della tela è buia, in ombra, così che l'attenzione dell'osservatore non venga distratta.[9]
La ricerca storiografica e quella critica non hanno tratto stimolo e tantomeno fatto progressi neppure a seguito della revoca critica delle originarie ipotesi formulate. Il dipinto contiene molti simboli e tracce che parrebbero indurre ad una soluzione del suo mistero, ma non si ha mai raggiunto una concordata soluzione.
Dopo un iniziale sollecito agli studi dovuto alla acquisizione ed esposizione nel museo della Reggia di Capodimonte, nonostante periodici riesami in diversa cadenza, più o meno rarefatta, non si è pervenuti a soluzione, né a sostanziali nuovi apporti documentali o critici, quantomeno di indicazione di elementi di novità per l'apertura di ulteriori percorsi di indagine e, con l'esaurimento progressivo nel tempo delle possibili interpretazioni rilevabili dalle indicazioni stesse del dipinto, si è verificata una protratta stasi della ricerca attributiva da almeno mezzo secolo.
Sugli esiti delle ricerche si è frapposto l'ostacolo fuorviante della iscrizione "IACO.BAR. VIGENNIS. P. 1495", abbreviata segnatura ed ineludibile ed irrisolta crittografia, resa ancor più ambigua dalla sovrapposta raffigurazione di una mosca.
L'interpretazione del malinteso cartiglio con le sue iscrizioni e abbreviazioni con riferimento a Jacopo de Barbari ha condizionato e fuorviato le indagini sin dalla origine, per prospettive e direzioni storiche di accertamento dei fatti e dell'autore.
Lo sviamento della ricerca critica è derivato dalla incompresa semanticità della mosca accostata alla presunta segnatura, intesa come esplicita e vera, anziché come smentita del cartiglio, nonostante l'inverosimile indicazione sull'età di "ventenne".
Va definitivamente rimosso il perdurante inattendibile lascito di una vieta attribuzione a Jacopo de Barbari, priva di riscontri storici. L'accostamento del nome all'iscrizione del cartiglio è soltanto parziale e non trova altri supporti di convalida, mentre la segnatura in sigla ( IA. D.B.) ed in simbolo (caduceo), usati stabilmente dal de Barbari, risultano diversi ed inutilizzabili.
L'attribuzione al de' Barberi sopravvive solo per ragioni inventariali e va esclusa per ragioni stilistiche, tecniche e pittoriche, troppo lontano dai suoi lavori ma vicino storicamente, ma avvicinabili al Vivarini[10].
Riferimenti storici e contenutistici - a cominciare dalla raffigurazione nel quadro del solido archimedeo noto come rombicubottaedro - rinviano alla coeva collaborazione tra Leonardo e Pacioli nella redazione del "De Divina Proportione" dal 1496.
Per un diverso sviluppo delle indagini ed un approfondimento esegetico del testo e delle concezioni matematiche del XV secolo si rinvia al sito indicato nei collegamenti esterni.
A far data dal 2010 esiste la prima duplice decifrazione del cartiglio data dalla studiosa leonardiana Carla Glori, comprendente sia l'interpretazione in chiaro dell'iscrizione “IACO.BAR.VIGEN/NIS P.1495” che la scoperta di circa cinquecento frasi dotate di senso e contrassegnate “VINCI”, formate con il medesimo repertorio alfabetico dell'iscrizione integrato dalla parola chiave “musca”. Nel 2017 la ricerca in progress è pervenuta a comprovare che la scritta originale, anche senza l'inserimento della parola chiave “musca”, è in grado da sola di generare una ventina di frasi contrassegnate VINCI, del tutto analoghe a quelle precedentemente decifrate, confermando ulteriormente l'ipotesi che l'enigmatica iscrizione sia in realtà una matrice alfabetica, programmata dal Pittore per generare frasi riferite ai soggetti, agli oggetti ritratti ed alla storia degli Sforza, e tutte contrassegnate dal marchio VINCI. L’insieme delle frasi decifrate (come da pubblicazione “Abaco Vinciano” del 2013, seguita dal dossier sulla ricerca “Il codice vinciano di Capodimonte” aggiornato al febbraio 2017, stampati entrambi dalla ricercatrice per finalità scientifiche e depositati presso il Museo di Capodimonte e altri enti museali), perviene a formare un organico intreccio storico-biografico, documentato dagli storici e da materiale d'archivio alla data del 1495. L'insieme delle frasi – facenti tutte rigorosamente capo alla tradizione antica e moderna degli anagrammi - è riferito alla biografia dei due personaggi ritratti (il matematico Luca Pacioli e l'allievo, che la Glori, a partire dal 2010, ha identificato in Galeazzo Sanseverino), alle loro azioni visibili e agli oggetti concreti dipinti nel quadro, a luoghi storici di Vigevano e, in massima parte, è supportato da testimonianze e documenti sulla storia della famiglia Sforza alla data del 1495 . La maggior parte delle frasi riguarda la vicenda della morte per avvelenamento di Gian Galeazzo Sforza avvenuta nell'ottobre 1494. La “mosca”- figura essenziale del cartiglio assunta quale parola - chiave – risulta essere una simbolica allusione alla morte del giovane duca, che gli storici imputano allo zio Ludovico il Moro.
La ricerca e le conclusioni tratte si accentrano sulla decifrazione della scritta del cartiglio “IACO.BAR.VIGEN/NIS P.1495” e vertono su aspetti linguistici, filologici, crittografici, matematici, statistici oltre che sulla ricostruzione di fatti storici precisi connessi alla data. I risultati, verificabili scientificamente su tali basi, consentono di trarre conclusioni atte a ricondurre il cartiglio stesso a Leonardo da Vinci. Il dossier “Il codice vinciano di Capodimonte” del 2017 contiene inoltre una proposta di attribuzione vinciana dell' intero "Doppio ritratto di Luca Pacioli con allievo": il metodo seguito dalla ricercatrice per pervenire alla proposta attributiva è stato rigorosamente quello della comparazione analitica di precisati particolari della riflettografia del quadro di Capodimonte con corrispondenti particolari delle riflettografie del “Musico” e della “Gioconda”, entrambe opere certamente autografe di Leonardo, pervenendo a dimostrare verificabili similitudini.
Giovanni Barca ha posto in rete il documento "jaco.bar.vigennis p.1495" enigma e "secretissima scientia", volto all'attribuzione del ritratto a Leonardo da Vinci.
Differenti sono le considerazioni che porterebbero la realizzazione alla bottega veneziana del Vivarini. Questi non era certamente ventenne nel 1495, ma non vi è nessun elemento che indichi in quella parola l'età del pittore o eventualmente di un suo allievo, mentre la tecnica pittorica potrebbe essere a lui riconducibile. la mosca posta sopra l'ultima cifra della datazione, indica la volontà dell'artista nel rendere un elemento ambiguo di disturbo.[11]
Il manufatto di vetro che è sospeso sul lato sinistro della tela, è fissato da una cordicella rossa con una sferetta sul fondo dell'elemento[12], questo indica la natura di vetro del solido. Sarebbe questo un forte legame con il Vivarini che faceva parte della antica famiglia di vetrai originari di Murano, lo zio Bartolomeo aveva collaborato alla realizzazione della grande vetrata della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia[13]
Nella bottega di Alvise Vivarini, imparava il giovane Lorenzo Lotto, se si considera fosse presente alla pittura dell'opera, viene facile collegare il suo dipinto Ritratto di giovane con lucerna che raffigura un giovane le cui impostazione del capo e dello sguardo presentano numerose analogie con il giovane allievo del Pacioli.[14]
Secondo una prima ipotesi, l'allievo è stato identificato in Guidobaldo da Montefeltro duca di Urbino, a cui pare il matematico avesse dedicato la sua opera.
La studiosa Carla Glori lo ha invece identificato nella figura di Galeazzo Sanseverino, genero e carissimo amico del Moro, figura di primo piano alla corte di Milano, nonché protettore dello stesso fra' Luca Pacioli. L'ipotesi è basata anche sulla comparazione con un altro ritratto, il cosiddetto Musico di Leonardo, anch'esso attribuito a Galeazzo, dove si notano elementi ricorrenti, quali la folta capigliatura riccia e la fenditura centrale del farsetto in forma di lancia, simboleggiante la potenza virile di Galeazzo nelle giostre.[15] Altri studiosi hanno puntato invece sulla stretta somiglianza tra questi due ritratti e quelli certi del padre di Galeazzo, Roberto Sanseverino, i cui lineamenti del viso mostrano parecchi tratti in comune.[16] La ricostruzione relativa all'anno 1495 evidenzia inoltre i contatti di Luca Pacioli con i suoi due mecenati milanesi (Ludovico e Galeazzo) e Leonardo, e comunque assume che già nel febbraio 1496 era in atto la collaborazione per il “De Divina Proportione” ed il frate matematico risultava ospite nellabitazione di Porta Vercellina di Galeazzo stesso (che ebbe dal Pacioli, unitamente al Duca Ludovico, la dedica di una delle tre copie manoscritte ultimate nel 1498). Un'ulteriore ipotesi identifica l'allievo con Niccolò Copernico, sia per la somiglianza, sia per la cicatrice sulla guancia riscontrabile sulla copia del suo autoritratto, custodito nel comune di Torun.[17]
Riguardo la discussa paternità del dipinto, il maggior credito va assegnato al massimo studioso in merito, il quale dichiara: “Personalmente ritengo che il cartellino vada sciolto a favore di Jacopo de' Barbari e che l'attribuzione sia confermata dalla cifra stilistica.”[18]. Poiché l'allievo ritratto si presenta connotato da attributi di nobiltà, come l'abbigliamento estremamente raffinato e i preziosi guanti di chi non è dedito a lavori faticosi, la ricerca della sua identità è stata orientata dagli studiosi verso individui di alto lignaggio o aristocratici, ma senza raggiungere soluzioni condivisibili da tutti gli osservatori. Un risultato più proficuo si ottiene dando adito alle parole del presunto autore, quando ricorda ambiziosamente che, riguardo alle arti liberali, “fu constituido che fusero operade solo da nobeli homeni”, e che la pittura “ben meritate se po sedere nele arte liberale per la suprema, come quella che cinge tute le altre in sé” (Iacopo de’ Barbari, De la ecelentia de pitura), da una lettera risalente ai primissimi del Cinquecento, indirizzata « Al divo Federico ducha de Sansonia, eletor del sacro romano imperio, principe gloriosissimo » (lettera riprodotta in Scritti d’arte del Cinquecento, pp. 66, 69, Ricciardi, Milano-Napoli 1971). Iacopo de’ Barbari operò alla corte del duca tra il 1503 e il 1505, a Wittenberg. La dichiarazione di elevatezza di rango, come requisito dei pittori a conoscenza delle arti liberali, “senza cui le sue hopere saranno improbabili e false” (Iacopo de' Barbari, De la ecelentia de pitura), induce a considerare la figura dell'allievo null’altro che l’autore stesso dell'opera. Potrebbe essere identificabile nel modello ritratto per Salvator Mundi, dipinto da Albrecht Dürer. I loro volti vengono mostrati in accostamento (v. ill.), al fine di una valutazione fisionomica. “Si è supposto, in base a valide ragioni, che [la tavola Salvator Mundi] sia stata eseguita prima della partenza per il secondo viaggio in Italia, ossia prima dell’autunno 1505”[19]
Dall'osservazione dell'aspetto dei particolari di bocca, naso e arcate sopraccigliari, nonché colore dei capelli ondulati e taglio degli occhi in entrambi i dipinti, si è portati a dedurre che i connotati siano riconducibili ad un'unica persona, nonostante che l'opera di Dürer sia lasciata incompiuta; fa unica eccezione il colore delle iridi. Se fosse vero che nel 1495 Jacopo de’ Barbari era ventenne (da una ipotetica traduzione di “vigennis”, VIGEN/NIS come viene dichiarato sul cartiglio del dipinto), allora intorno al 1505 l'artista veneziano aveva l'età giusta per interpretare il ruolo del Messia ed è quindi possibile che quando si trovava “a Norimberga, meta del primo soggiorno tedesco di Jacopo de' Barbari a partire dal 1500”[18], abbia posato direttamente per Albrecht Dürer, il quale a sua volta s'era manifestato in atteggiamento analogo nell'Autoritratto con pelliccia, datato 1500. Con questo dipinto “È fuor di dubbio che Dürer abbia deliberatamente cercato la rassomiglianza con il Salvatore”[20]. L'Autoritratto con pelliccia “rappresenta non quello che l'artista pretende di essere, ma quello che egli deve umilmente cercare di divenire: un uomo cui è stato fatto il dono – che implica il trionfo e la tragedia insieme – dello eritis sicut Deus” (Erwin Panofsky, Idem).[21] Vista la perfezione del doppio ritratto, la pittura in genere merita esser “fata la otava arte liberale” (Iacopo de’ Barbari, De la ecelentia de pitura).
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