Carlo Dalmazzo Carrà (Quargnento, 11 febbraio 1881 – Milano, 13 aprile 1966) è stato un pittore e docente italiano, professore presso l'Accademia di Brera dal 1939 al 1951.
Figlio di un possidente terriero caduto in disgrazia, apprese i primi accenni dell'arte del disegno da giovane, a soli 12 anni, durante una forzata permanenza a letto a causa di una lunga malattia. Figlio di Giuseppe e Giuseppina Pittolo, nacque a Quargnento (Alessandria) l'11 febbraio del 1881. Iniziò ben presto a lavorare come decoratore murale a Valenza frequentando nel frattempo le Scuole serali tra cui a Milano negli anni 1904-05 la Scuola superiore d'Arte applicata all'Industria del Castello Sforzesco. Ricorda infatti di lui Luigi Timoncini: «In particolare Carrà allora di professione decoratore murale, frequentatore della Scuola negli anni 1904-05 di ritorno da Parigi e Londra, prima di iscriversi all'Accademia di Brera, vi si distinse conseguendo il primo premio di decorazione, di lire 500, e quello Noseda di 175 lire.»[senza fonte] Anche Carrà stesso ricorda il conseguimento dei due premi nella propria autobiografia.
Nel 1899-1900 il C. fu per la prima volta a Parigi, poi a Londra; vide molta pittura antica e moderna a Londra e a Parigi; a Milano guardava soltanto a Segantini, Previati, Mosé Bianchi. Per quel tempo, la sua era una "informazione" abbastanza vasta, tale da fargli capire, per via di confronto, che l'arte borghese italiana del primo Novecento non poteva suggerirgli alcuna idea innovatrice. Si recò a Parigi all'Esposizione universale, per eseguire le decorazioni di alcuni padiglioni. In visita al Louvre, si entusiasmò di alcuni pittori, quali Delacroix, Géricault, Manet, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cézanne, Camille Pissarro, Alfred Sisley, Claude Monet, Gauguin. A Londra, invece, si appassionò alle opere di John Constable e William Turner.
In questo periodo cominciò a interessarsi di politica, intrattenendo rapporti con gruppi anarchici che interruppe però ben presto. Trovatosi per caso nel corso del funerale dell'anarchico Galli, ucciso dal custode della fabbrica che picchettava nel corso dello sciopero generale del 1904, e pur essendo di destra e successivamente apertamente fascista ne rimase profondamente colpito, e cominciò a disegnare alcuni bozzetti, che anni più tardi sfoceranno nell'opera Il funerale dell'anarchico Galli.
Solo nel 1906 entrò all'Accademia di Brera, come allievo di Cesare Tallone. Qui incontrò alcuni giovani artisti destinati a essere protagonisti sulla scena artistica italiana: Bonzagni, Romani, Sbardella, Valeri e Umberto Boccioni.
Breve esperienza divisionista: è difatti nel divisionismo che Carrà scorge i fermenti più vivi di rivolta al clima provinciale della pittura italiana di quegli anni. Nel 1909, con la pubblicazione del Manifesto del futurismo, a firma di Filippo Tommaso Marinetti, rivolto ai giovani artisti dell'epoca per esortarli ad adottare un nuovo linguaggio espressivo, nasce il nuovo movimento del Futurismo, cui aderiscono Carrà e altri artisti, fra cui i pittori Gino Severini e Giacomo Balla.
Negli anni quaranta insegna pittura all'Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. Suoi allievi sono stati Giuseppe Ajmone e Oreste Carpi.
Di questo periodo è il breve ma intenso legame sessuale con Leda Rafanelli, anarchica, che si era separata dal marito; Alberto Ciampi, uno dei maggiori esperti per quanto concerne i rapporti fra Futurismo e anarchia, ha pubblicato un libro dedicato ai due Leda Rafanelli, Carlo Carrà: un romanzo, arte e politica in un incontro, non per niente Carrà le dedica un quadro[1] intitolato "Funerali dell'anarchico Galli" e commenta così l'accadimento.
«Vedevo innanzi a me la bara tutta coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle spalle dei portatori; vedevo i cavalli imbizzarriti, i bastoni e le lance urtarsi, sì che a me parve che la salma avesse a cadere da un momento all'altro in terra e i cavalli la calpestassero[2]» |
Da questo scritto traspare lo scosso stato emotivo di Carrà, in quanto durante i funerali vi furono scontri fra poliziotti e partecipanti al corteo funebre.
«Quando, durante lo sciopero generale del 1904, fu ucciso l'anarchico Galli e durante il suo funerale nacque una mischia di inaudita violenza, Carrà, trovatosi lì per caso, ne fu fortemente impressionato, e tornato a casa schizzò il disegno da cui prese spunto più tardi per il quadro I funerali dell'anarchico, esposto nelle mostre futuriste del 1912.[3]» |
Carrà collaborò al movimento futurista per sei anni. I concetti ispiratori della pittura futurista vennero pubblicati sulla rivista Lacerba, a cui egli collaborò attivamente. Carrà concepiva i suoi quadri come immagini dinamiche ma allo stesso tempo non soltanto limitate a dare la sensazione di movimento, destinate attraverso il colore, a eliminare la legge fissa di gravità dei corpi. Nel 1908 Carrà conosce Boccioni e Luigi Russolo. Dopo aver aderito al movimento di Marinetti, con Boccioni, Russolo, Severini e Balla, firma il Manifesto dei pittori futuristi l'11 febbraio 1910, e il Manifesto tecnico della pittura futurista l'11 aprile 1910. Suo è il manifesto La pittura dei suoni, rumori, odori (1912). Proprio in questi anni nacque l'amicizia fra Carrà e il poeta Giuseppe Ungaretti.[4] Il distacco dal Futurismo avviene nel 1916, quando dà avvio con De Chirico alla pittura metafisica.
Le principali opere futuriste di Carrà sono:
A partire dal 1915 Carrà comincia a sentire l'esigenza di abbandonare i temi della velocità e del dinamismo, cercando un contatto più strutturato con il reale. La guerra coinvolgerà Carrà, prima con un'intensa attività interventista, durante la quale conobbe anche Cesare Battisti, e poi con la chiamata alle armi. Ma l'esperienza fu talmente dolorosa, che finì ricoverato in un nevrocomio a Ferrara. In questa città, nel 1917, conobbe Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Filippo de Pisis e Giorgio Rea, scultore siciliano anarchico, non interventista, omosessuale, dipendente dall'oppio e morto suicida nel 1917 in circostanze poco chiare alle autorità dell'epoca, in una vicenda che aveva, tra l'altro, influenzato molto lo stile di Giorgio De Chirico negli anni del conflitto mondiale per la forte intolleranza di certi ambienti nei confronti dell'omosessualità[5] e con i quali definì i principi teorici della Metafisica. Dopo alcune opere in stile dechirichiano, il pittore raggiunse ben presto una propria individualità artistica, per cui Carrà non rimase confinato tra le formule tipiche del movimento metafisico, nella sua arte la metafisica fu decisamente superata dalla poesia e dal senso del magico. Nel 1919 contrasse matrimonio con Ines Minoja e iniziò la collaborazione alla rivista d'arte Valori plastici di Roma, che proseguì fino al 1921. Le principali opere di questo periodo sono:
Due giovani donne si confrontano di fronte alla facciata di una casa. La ragazza di sinistra è in piedi sulla soglia mentre l’altra a destra è inginocchiata. A terra è poggiato un bastone da viaggio appartenente alla giovane. Tra di loro un cane corre ad accogliere la ragazza. La scena si svolge su uno spazio lastricato, alla destra del quale si erge un pilastro di foggia classica che sostiene una pigna marmorea. Oltre il cortile si sviluppa un paesaggio scarno con due colline pietrose. Dietro a una di esse si intravede una rotonda. Infatti, secondo gli storici, analizzando l’opera è possibile individuare il passaggio dalla Metafisica al Realismo Magico. Carlo Carrà segna così un punto di arrivo nelle sue ricerche condotte a partire dal 1915-1916. In questo dipinto si possono osservare le esperienze legate alla poetica di Ritorno all’Ordine che vennero promosse sulla rivista Valori Plastici. Nel periodo dominato culturalmente dalla retorica fascista gli artisti furono spinti a rievocare la tradizione italica. La sua ricerca formale partì infatti dallo studio di Giotto e Masaccio il cui stile si ritrova ne Le figlie di Loth. I corpi delle figure sono semplificati e le forme sintetiche e ricondotte a forme geometriche idealizzate. Si tratta di un linguaggio arcaicizzante che si evidenzia anche nelle posture delle due protagoniste. Il paesaggio e il terreno piastrellato sono un ricordo delle esperienze metafisiche.
Nel 1922, una nuova svolta nel percorso artistico di Carrà, che lo porta ad abbandonare anche la metafisica, spinto dal desiderio di "essere soltanto se stesso". La pittura deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno di astrazione e la contemplazione del paesaggio si risolve allora nella «costruzione» di un quadro, sia montano sia marino. Conosce anche il pittore-poeta milanese Cesare Breveglieri (il quale lo ritrasse mentre dipingeva). L'archivio dell'artista è conservato all'Archivio del '900 del Mart di Rovereto.
Carlo Carrà riposa al Cimitero Monumentale di Milano[7]; sulla sua tomba è collocata un'opera di Giacomo Manzù[8].
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana | |
— Roma, 2 giugno 1961[14] |
Grande ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana | |
«Su proposta della Presidenza del Consiglio dei ministri» — Roma, 30 dicembre 1952[15] |
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