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Guido Reni (Bologna, 4 novembre 1575 – Bologna, 18 agosto 1642) è stato un pittore e incisore italiano, uno dei massimi esponenti del classicismo seicentesco[1].

Autoritratto (1602-1603 circa), Roma, Galleria di Palazzo Barberini
Autoritratto (1602-1603 circa), Roma, Galleria di Palazzo Barberini

Biografia


Reni nacque a Bologna nell'attuale Palazzo Ariosti di via San Felice 3 da Daniele, musicista e maestro della Cappella di San Petronio e Ginevra Pozzi; venne battezzato il 7 novembre nella chiesa metropolitana di San Pietro. Un'erronea tradizione che risale alla fine del Settecento lo fa nascere a Calvenzano (Vergato), nell'Appennino bolognese.

Nel 1584, a dire dello storico Carlo Cesare Malvasia che conobbe il pittore, abbandonò gli studi di musica a cui era stato avviato dal padre per entrare nell'avviata bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert, amico del padre, che si impegnò a tenerlo per dieci anni. Ebbe per compagni di apprendistato pittori destinati a grande successo come Francesco Albani e il Domenichino e sappiamo che studiò in particolare le incisioni del Dürer e di Raffaello.

Morto il padre il 7 gennaio 1594, Guido lasciò la bottega del Calvaert per aderire all'Accademia degli Incamminati, scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582 col nome di Accademia dei Desiderosi (il nome fu cambiato nel 1590). Qui approfondì la pittura ad olio, l'incisione a bulino (riproducendo ad esempio l'Elemosina di San Rocco di Annibale) e copiando a più riprese singole parti dell'Estasi di Santa Cecilia, allora esposta nella chiesa di San Giovanni in Monte.

Qui mostrò il suo talento: il Malvasia riferisce l'aneddoto del suggerimento dato da Annibale a Ludovico Carracci, di non gl'insegnar tanto a costui, che un giorno ne saprà più di tutti noi. Non vedi tu come non mai contento, egli cerca cose nuove? Raccordati, Lodovico, che costui un giorno ti vuol far sospirare.

Nel 1598, già pittore indipendente, dipinse la Incoronazione della Vergine e quattro santi, oggi nella Pinacoteca di Bologna, per la chiesa di San Bernardo, e vinse la gara, in concorrenza con Ludovico Carracci, per la decorazione della facciata del Palazzo del Reggimento, l'attuale palazzo municipale di Bologna: gli affreschi, commissionati per onorare la visita di papa Clemente VIII (di passaggio in occasione della devoluzione del Ducato di Ferrara allo Stato della Chiesa) e rappresentanti figure allegoriche, si erano già cancellati nell'Ottocento e rappresentarono la rottura con il suo vecchio maestro e con altri allievi dei Carracci. Sono contemporanee le tele della Madonna col Bambino, san Domenico e i Misteri del Rosario della Basilica di San Luca, due affreschi in palazzo Zani a Bologna e, tra diversi altri lavori, l'Assunzione della Vergine nella parrocchiale di Pieve di Cento. Il 5 dicembre 1599 entrò nel Consiglio della Congregazione dei pittori di Bologna.

La figura di Guido Reni è stata ripresa anche dallo scrittore tedesco Joseph von Eichendorff nel suo romanzo Aus dem Leben eines Taugenichts, vita di un perdigiorno.


A Roma


Sansone vittorioso (1611), Pinacoteca Nazionale di Bologna
Sansone vittorioso (1611), Pinacoteca Nazionale di Bologna

Forse già nel 1600 ma certamente nel 1601 era a Roma, dove l'11 ottobre fu pagato dal cardinale Sfondrato per il suo Martirio di santa Cecilia della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere: per lo stesso committente e la stessa chiesa eseguì anche l'Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano e una copia - questa volta intera - del dipinto bolognese di Raffaello, l'Estasi di Santa Cecilia con quattro santi, ora nella chiesa di San Luigi dei Francesi e dipinta a Bologna prima della partenza. Nel marzo del 1602 tornò nella città natale per assistere ai funerali del grande Agostino Carracci e fu incaricato di incidere a stampa le decorazioni allestite per il funerale.

Viaggiò da Bologna a Roma e di qui a Loreto, per trattare delle eventuali decorazioni della Santa Casa che furono però affidate al Pomarancio.

In questo periodo dipinse il Cristo in Pietà adorato dai santi Vittore e Corona, da Santa Tecla e San Diego d'Alcalà, ora nella Cappella della Sacra Spina del Duomo di Osimo (1601 circa) e la Trinità con la Madonna di Loreto (1604) per la Chiesa della Trinità o del Sacramento della stessa cittadina. Entrambe le opere furono richieste dal cardinale Antonio Maria Galli, un creato di Sisto V, noto in ambito storico artistico per le sue commissioni al pittore Cristoforo Roncalli, il Pomarancio.

Nel 1605 completò La crocefissione di san Pietro, per la chiesa romana di San Paolo alle Tre Fontane, ora nella Pinacoteca Vaticana, commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini. Per il Malvasia sarebbe stato il Cavalier d'Arpino a suggerire l'emulazione del soggetto, derivato dalla tela caravaggesca della basilica di Santa Maria del Popolo, per danneggiare il Caravaggio nei favori dei committenti. Ne riprodusse in parte i contrasti di luce ma tolse il dramma: la sua crocefissione è un tranquillo lavoro di artigiani, che rovesciano un santo rassegnato sulla croce e lo legano e l'inchiodano con gesti lenti e metodici.

È la sua ricerca del bello ideale, ricavato dal classicismo raffaellesco nella mediazione dei Carracci che sfiora soltanto la visione naturalistica di Caravaggio ma se ne allontana per la necessità di ammantarla di decoro; di questa esperienza, nel primo decennio del secolo, sono parte il Davide con la testa di Golia del Louvre, il Martirio di santa Caterina per la chiesa di Sant'Alessandro a Conscente, ora al Museo diocesano di Albenga in Liguria, La preghiera nell'orto di Sens e L'incoronazione della Vergine di Londra.

Strage degli innocenti (1611), Pinacoteca Nazionale di Bologna
Strage degli innocenti (1611), Pinacoteca Nazionale di Bologna

La sua fama è così consolidata che nel 1608 papa Paolo V gli affidò la decorazione di due sale dei Palazzi Vaticani, la Sala delle Nozze Aldobrandine e la Sala delle Dame, e il cardinale Borgherini gli affreschi di San Gregorio al Celio, il Martirio di sant'Andrea e l'Eterno in gloria. L'anno dopo iniziò la decorazione della cappella dell'Annunciata nel palazzo del Quirinale, avvalendosi dell'aiuto di Francesco Albani, Antonio Carracci, Jacopo Cavedone, Tommaso Campana, ma soprattutto Giovanni Lanfranco; l'iscrizione di termine dei lavori reca la data 1610, comprendendo gli affreschi sulle pareti e la tavola dell'Annunciazione sull'altare, "con maggior applauso e meraviglia di tutta la Corte, che vi accorse ad ammirarla come cosa prodigiosa" (Malvasia).

Il 25 settembre 1609 ricevette il primo acconto per gli affreschi della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore che interruppe alla fine del 1610, sembra per contrasti con l'amministrazione papale. Tornò a Bologna dopo il 1614, anno in cui terminò l'Aurora per il casino Rospigliosi (a Roma). La Strage degli innocenti e il Sansone vittorioso furono probabilmente iniziati a Roma e terminati a Bologna (venti scudi gli erano infatti anticipati a Roma per la commissione della Strage).

Se il Sansone è un gigante effeminato che si ristora dopo il massacro, e i morti sembrano dormire placidamente nella serenità albeggiante di una vasta pianura, nell'altra Strage, rappresentata con sei donne, due piccoli morti e due assassini, la tragedia è congelata nella misura e nella simmetria della composizione raffaellesca. Di questo dipinto, suo capolavoro assoluto, si ricordarono Poussin, i pittori neoclassici francesi e persino Picasso, che richiamò la tela di Reni in alcune parti del suo Guernica.

Tornò a Roma nel 1612, per terminare in aprile gli affreschi di Santa Maria Maggiore; il cardinale Scipione Borghese gli commissionò, per un Casino nel parco del suo palazzo, ora Palazzo Pallavicini Rospigliosi, l'affresco dell'Aurora, terminato nell'agosto 1614. Il grandioso affresco ebbe grande fortuna fino al Neoclassicismo: il carro di Apollo, circondato dalle figure delle Ore è preceduto dall'Aurora mentre sopra i quattro cavalli vola Fosforo, l'astro del mattino, con una torcia accesa; in basso a destra un paesaggio marino.

Dopo un breve soggiorno a Napoli, ancora a Roma ai primi del 1614, tornò definitivamente a Bologna nell'ottobre 1614.

Al primo viaggio di ritorno da Roma, e ai dubbi sulla sua pittura, è dedicato il romanzo biografico Il viaggio di Guido Reni, scritto da Manlio Cancogni e vincitore del Premio Grinzane Cavour del 1987 (Lit, Roma, 2013).


A Bologna


Ritratto della madre (1615-1620), Pinacoteca Nazionale di Bologna
Ritratto della madre (1615-1620), Pinacoteca Nazionale di Bologna

Qui eseguì opere che saranno prototipo di numerose tele seicentesche come, per la chiesa di Santa Maria della Pietà, l'enorme pala detta Pietà dei Mendicanti, commissionata dal Senato bolognese, la Crocifissione ora nella Pinacoteca Nazionale e l'Assunzione della Vergine di Genova. Nel 1615 terminò di affrescare la Gloria di San Domenico nel catino absidale della nuova cappella barocca contenente l'arca del santo fondatore dell'ordine domenicano, che aveva iniziato due anni prima e subito interrotto a causa dei viaggi a Roma.

I lavori che aveva in corso, in contemporanea e su grandi formati, sia a Roma che a Bologna, necessitarono da subito la collaborazione di colleghi, assistenti e giovani praticanti. Tanti furono i giovani pittori che ambirono ad essere considerati suoi allievi, partecipando attivamente alla vita delle sue diverse “stanze” oppure passandovi sporadicamente per cogliere qualche spunto dai suoi lavori in corso d’opera; per questo motivo Reni riservava ai suoi lavori più importanti ambienti appartati, per evitare plagi da parte di giovani di passaggio e per smorzare invidie tra gli assistenti più stretti. Malvasia arriva a parlare di duecento allievi, avvertendo che, a quell'epoca, qualche artista si fregiava del titolo di “allievo di Guido Reni” per darsi importanza, quando magari era rimasto soltanto per qualche giorno all’interno di uno dei suoi atelier: «Fù tanta, e tale insomma la fama e’l grido ch’egli ebbe, che parve, che a suoi tempi non fosse stimato buon Pittore chi d’esser stato suo scolare non si fosse potuto pregiare; facendogli gran fortuna il solo nome di un tanto Maestro…».[2]

I primi che vengono citati dalle fonti, e che lavorarono concretamente sui dipinti commissionati a Reni, oltre ai già citati Albani e Lanfranco, sono i noti Gessi, Sementi, Sirani, Cantarini: «De gli Allievi della sua scuola è impossibile il metterne assieme un registro, anche mediocre, perché talora fu che né contassimo sino a dugento di ben cogniti, fra quali huomini insigni, e Maestri grandi; come il Lanfranchi, il Gessi, il Semente, il Sirani, il Pesarese, il Rugieri, il Desubleo, Bolanger, i Cittadini, il Randa, il Canuti, il Bolognini, Venanzio, e tanti, e tanti...».[3]

Tra i minori figura Antonio Randa, il quale passò presto all'atelier di Lucio Massari dopo un tentativo di uccisione del suo maestro Reni: «Voleva ammazar Guido per sospetto che fosse inamorato nella sua bramosia di Rosa, onde la fece nuda per Venere ancora et egli per Marte...».[4]

Nesso rapisce Deianira (1621), Museo del Louvre, Parigi
Nesso rapisce Deianira (1621), Museo del Louvre, Parigi

Il 20 giugno 1617 fu chiamato a Mantova per eseguire decorazioni nel Palazzo Ducale ma rifiutò per le "infermità mortali" che gli provocherebbe la pittura a fresco; in compenso, eseguì per il duca quattro tele con le Fatiche di Ercole - Ercole sul rogo, Ercole e Archeloo, Ercole e l'idra e Nesso rapisce Deianira - ora al Louvre. Altre due tele sono andate perdute (Venere e le tre grazie e il Giudizio di Paride).

Nel maggio 1622 fu a Napoli, per affrescare la cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo ma non raggiunse l'accordo economico e ripartì per Roma, dopo aver dipinto tre tele per la chiesa di San Filippo Neri. Se delle presunte, oscure manovre ordite contro di lui dai pittori napoletani non esistono prove documentarie, una lettera del 20 agosto del conte Barbazzi al duca di Mantova attesta l'"estremo bisogno" di denaro del pittore, "larghissimo dissipatore".

La tela dell'Atalanta e Ippomene figurava nel Seicento nelle collezioni dei Gonzaga a Mantova. Rappresenta il mito della gara fra Ippomene e l'invincibile Atalanta, che perderà la corsa - e la propria verginità - per fermarsi a raccogliere le mele d'oro lasciate cadere da Ippomene durante la corsa. «Nudi da Erebo, fantasmi di un imbrunire perpetuo, Atalanta e Ippomene sono colpiti da una luce spettrale: evocati, richiamati dal nulla....le carni s'imbevono di una luce astratta, lunare. Una diagonale di rossori, in quel pallore livido, d'incarnati più rosei, un soffio appena vitale attraversa le mani dei due adolescenti, scalando dal volto del giovane fino alla mano della fanciulla che interrompe la corsa e si distrae a raccogliere il pomo gettato dal rivale: un gesto - lapsus, che nel suo curvo ritmo di danza scopre una nudità di membra molli, lievemente deteriorate... Atalanta assorta in un'ermetica indifferenza, Ippomene che si ritrae spaventato dalla magia fascinatrice del pomo, divergono in un rapporto di fraterna, incomunicabile solitudine» (Cesare Garboli).

Davide con la testa di Golia (1605), Museo del Louvre, Parigi
Davide con la testa di Golia (1605), Museo del Louvre, Parigi

Nel 1625 firmò e datò a Roma il Ritratto del cardinale Roberto Ubaldini, ora in una collezione privata inglese, e la grande pala barocca della Trinità per la chiesa dei Pellegrini, terminata a settembre e dipinta, secondo il Malvasia, in ventisette giorni.

A questo periodo (1627) appartiene anche la celeberrima tela della Immacolata Concezione, oggi nella Chiesa di San Biagio a Forlì.

Ritornò ancora a Roma nel 1627 per eseguire gli affreschi, commissionatigli dal cardinale Barberini, delle Storie di Attila in San Pietro; impose che nessuno - «né anco i cardinali» - salisse sulle impalcature durante i lavori e tuttavia non iniziò nemmeno e ripartì bruscamente per Bologna, per l'ostilità di alcuni cardinali e della gelosia del Gessi, suo ex allievo.

Vergine in preghiera - olio su tela. 50x40 cm, 1627 circa, Roma, Fondazione Sorgente Group
Vergine in preghiera - olio su tela. 50x40 cm, 1627 circa, Roma, Fondazione Sorgente Group

Durante questa permanenza a Roma dall'ambasciatore spagnolo ricevette la commissione del Ratto d'Elena, ma non si accordò sul compenso e fu allora venduto in Francia a Monsieur de la Vrillière: è una fredda e decorativa scena da melodramma cortigiano, diversamente dal Ritratto del cardinale Bernardino Spada, conservato nell'omonima Galleria romana, donato dal pittore all'amico cardinale, legato pontificio a Bologna. Lo Spada è rappresentato con evidente simpatia e una resa vibrante di colori che ne esalta l'aspetto aristocratico e intelligente in un contesto di compostezza e decoro.

Superata la tremenda peste del 1630, il Senato bolognese gli commissionò la pala votiva della Madonna col Bambino e santi, criticata dai contemporanei per la sua seconda maniera: schiarisce le tonalità, intridendole di argento, come si nota anche nella delicata Annunciazione di Ascoli Piceno.


Gli ultimi anni


San Sebastiano, 1640-1642, Bologna, Pinacoteca Nazionale
San Sebastiano, 1640-1642, Bologna, Pinacoteca Nazionale

Prima del 1635 eseguì su seta, per il cardinale Sant'Onofrio, fratello del papa Urbano VIII, il San Michele arcangelo. Celebrato come esempio di bellezza ideale, il Reni, in una lettera, scrisse di aver voluto avere «pennello angelico o forme di Paradiso per formare l'Arcangelo o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant'alto ed invano l'ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell'idea mi sono stabilita».

Fanno parte della produzione ultima le Adorazioni dei pastori di Napoli e di Londra, i San Sebastiano di Londra e di Bologna, la Flagellazione di Cristo di Bologna, il Suicidio di Cleopatra e la Fanciulla con corona, entrambe nella Pinacoteca Capitolina e un San Pietro piangente in collezione privata[5]. Sono opere che il Malvasia definì incompiute: eseguite a pennellate veloci e sommarie, secondo un'intenzione stilistica che la critica, dal Novecento, riconobbe invece come consapevole scelta estetica. Per il suo biografo, a causa dei debiti, il pittore fu costretto negli ultimi anni «a lavorare mezze figure e teste alla prima, e senza il letto sotto; a finire inconsideratamente le storie e le tavole più riguardevoli; a prender denaro a cambio da tutti; a non ricusare ogni imprestito da gli amici; a vendere, vil mercenario, l'opra sua e le giornate a un tanto l'ora».

Sembra certo che soffrisse di depressione: «comincio a non piacere più nemmeno a me stesso», scrisse, e confessò di pensare alla morte «conoscendo essere vissuto assai, anzi troppo, dando fastidio a tanti altri, forzati a star bassi finch'io vivo».

Il 6 agosto 1642 fu "colto da febbri" che lo portarono a morte il 18 agosto, a 67 anni. Il corpo fu esposto vestito da cappuccino e sepolto nella cappella del Rosario della basilica di San Domenico, per volontà del senatore bolognese Saulo Guidotti, legato al pittore da profonda amicizia. Accanto a lui giacquero poi anche le spoglie di Elisabetta Sirani, figlia di Giovanni Andrea Sirani, suo allievo prediletto.


Fortuna critica


San Michele arcangelo (1635), Chiesa di Santa Maria Immacolata a via Veneto, Roma
San Michele arcangelo (1635), Chiesa di Santa Maria Immacolata a via Veneto, Roma

È la sostanziale ambiguità della sua poetica ad aver fatto oscillare l'apprezzamento della sua opera nel tempo: fu esaltato dai contemporanei per l'armonia raggiunta nel coniugare il classicismo raffaellesco alle esigenze di verità poste da Caravaggio - esigenze naturalistiche del resto già sentite dal Reni fin dal tempo della sua frequentazione dei Carracci - e depurate dagli eccessi in nome del decoro e della ricerca del bello ideale.

«Di tutti gli allievi dei Carracci è stato il più felice e ancor oggi si trova un'infinità di persone che prediligono le sue opere al punto da preferire la delicatezza e la grazia che manifestano alla grandezza e alle forti espressioni di altre» (Des Avaux, 1666) e Pierre-Jean Mariette, nel 1741, scrive che «la nobiltà e la grazia che Guido ha soffuso sui volti, i suoi bei drappeggi, uniti alla ricchezza delle composizioni, ne hanno fatto un pittore dei più gradevoli. Ma non si deve credere che sia giunto a questo senza essersi sottoposto a un intenso lavoro. Lo si vede soprattutto nei disegni preparatori di grandi dimensioni: ogni particolare è reso con assoluta precisione. Attraverso di essi si rivela un uomo che consulta continuamente la natura e che non fa alcun assegnamento sul suo dono felice di abbellirla».

Apprezzate nel Settecento anche le opere dell'ultima maniera dalle forme che si dissolvono nella luce, nell'Ottocento, a parte la stroncatura di John Ruskin, nel 1844, ("la religione deve essere ed è sempre stata il fondamento e lo spirito informatore di ogni vera arte. Mi assale una collera disperata quando sento che Eastlake compera dei Guido per la National Gallery"), intorno al Reni si fa silenzio quando non vi è il disprezzo per certe espressioni della sua pittura devozionale.

Nel 1923 esce l'importante articolo di Hermann Voss sugli anni romani dell'attività del Reni, in cui lo studioso tedesco individua l'attenzione del bolognese alla pittura moderna di Annibale Carracci e dello stesso Caravaggio ma con un approccio da conservatore che "paralizza" la monumentalità dell'uno e il naturalismo dell'altro, tanto da suscitare l'entusiasmo di un Cavalier d'Arpino. «L'irresistibile incanto del Reni era ed è riposto nel sensuale fascino della sua cantilena in una sua tipica e inimitabile dolcezza musicale [...] il modo con cui lascia cadere una veste frusciante, con cui, grazie ad una semplicissima curva compositiva, fa risuonare e vibrare l'intera figurazione, ha qualcosa di sonnambulesco.» Non vi sono nel Reni nuovi pensieri e originalità compositive ma un semplice confrontarsi con la tradizione: la forza del pittore sta «nell'alto senso della bellezza e in quella musicalità del sentire che nobilitano ogni linea, ogni movenza».

San Pietro penitente – Roma, Collezione Mainetti (Roma)
San Pietro penitente – Roma, Collezione Mainetti (Roma)

Per il Longhi, nel Reni è acutissimo il desiderio «di una bellezza antica ma che racchiuda un'anima cristiana [...] spesso, da vero pittore e poeta, escogita gamme paradisiache [...] angeli soffiati in rosa e biondo [...] un anelito a estasiarsi, dove il corpo non è che un ricordo mormorato, un'impronta; un movente quasi buddistico, che bene s'accorda con l'esperienza tentata da Guido di dipinger sulla seta, a somiglianza, appunto, degli orientali».

Il suicidio di Cleopatra (circa 1625-1626), Bildergalerie (Sanssouci), Potsdam
Il suicidio di Cleopatra (circa 1625-1626), Bildergalerie (Sanssouci), Potsdam

Una grande mostra a Bologna nel 1954 accentuò l'interesse critico per l'artista: per il Ragghianti, «il vero Reni ci si presenta come un artista rimasto, oltre ogni dottrina e bravura di prove, trepidamente adolescente, in un crepuscolo di esperienze che, come nella pubertà, avvolge il senso nella fantasia e gli dà quell'accensione fascinosa che dilata la realtà.»

Per Cesare Gnudi, la poetica classicista fu dominante nel Reni, ed egli, pur identificando il suo ideale di bellezza con le immagini della mitologia classica, dovette mediare tale ideale con la realtà storica, politica e religiosa, cui aderiva, della Controriforma, e «fra il suo ideale di bellezza e il suo sentimento religioso già assestato in una quieta e accomodante pietà, egli non sentì forse mai un vero contrasto». Non è vero che il vero Reni si troverebbe nell'evocazione di soggetti mitologici e un falso Reni si esprimerebbe nella convenzionalità dei suoi soggetti religiosi; se mondo classico e mondo religioso non contrastano fra di loro, tuttavia nemmeno si identificano e il Reni non sentì mai di dover scegliere: «La scelta non avvenne perché egli sentiva nell'uno e nell'altro mondo qualche parte vitale di sé. Non avvenne mai la rinuncia all'uno in nome dell'altro. Il dualismo restò così fino all'ultimo, continuamente composto e continuamente affiorante».

Negli ultimi anni «alla levitazione della forma materica farà seguito progressivo un disfacimento delle ultime vestigia naturali; la pittura andrà sempre più a decomporsi come una crisalide, lasciando emergere la struttura scarna e tuttavia persuasiva del progetto grafico sottostante. L'accelerazione è così evidente da far risuonare sotto le volte dello studio posto quasi in piazza Maggiore quel non finito che il Manierismo aveva portato al livello della metafora (l'impossibile a dire, a esprimere) che al contrario Guido intendeva come la sublime sprezzatura poetica dell'esprimibile toccato e colto nella pienezza dell'idea, del suo mondano travestimento» (Emiliani).


Opere


Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Guido Reni.

Note


  1. Rèni, Guido, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 28 aprile 2016.
  2. Ipotesi sul ruolo attivo avuto dai primi allievi di Reni, da Tamburini (1601) al Cagnacci (1616) sono in Negro, Pirondini 1992, p. 13.
  3. Malvasia 1678, vol. II, p. 58.
  4. Malvasia ms. B17, BCA Bo, carta 185v. Pubblicata in Arfelli 1961, p.107.
  5. che Alex Cavallucci e Andrea Emiliani collocano in questi ultimi anni di vita del maestro

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[de] Guido Reni

Guido Reni, genannt il Guido oder il divino Guido[1] („der göttliche Guido“; * 4. November 1575 in Bologna; † 18. August 1642 ebenda) war ein italienischer Maler, Freskant und Radierer der Bologneser Schule und einer der berühmtesten und bedeutendsten Künstler des 17. Jahrhunderts.[2] Er wirkte vor allem in seiner Heimatstadt und in Rom und war der Hauptvertreter eines barocken Klassizismus in der Malerei.

[en] Guido Reni

Guido Reni (Italian pronunciation: [ˌɡwiːdo ˈrɛːni]; 4 November 1575 – 18 August 1642) was an Italian painter of the Baroque period, although his works showed a classical manner, similar to Simon Vouet, Nicolas Poussin, and Philippe de Champaigne. He painted primarily religious works, but also mythological and allegorical subjects. Active in Rome, Naples, and his native Bologna, he became the dominant figure in the Bolognese School that emerged under the influence of the Carracci.

[es] Guido Reni

Guido Reni (Bolonia, 4 de noviembre de 1575-Bolonia, 18 de agosto de 1642) fue un pintor italiano perteneciente a la Escuela Boloñesa y famoso del clasicismo romano-boloñés.

[fr] Guido Reni

Guido Reni dit Le Guide, né à Bologne le 4 novembre 1575 et mort à Bologne le 18 août 1642 est un peintre, fresquiste et graveur italien de la période baroque, bien que ses œuvres aient montré une manière classique, semblable à Simon Vouet, Nicolas Poussin et Philippe de Champaigne. Il peint principalement des œuvres religieuses, mais aussi des sujets mythologiques et allégoriques. Actif à Rome, à Naples et dans sa Bologne natale, il devient la figure dominante de l'École de peinture de Bologne qui émerge sous l'influence des Carracci.
- [it] Guido Reni

[ru] Рени, Гвидо

Гви́до Ре́ни (итал. Guido Reni; 4 ноября 1575, Кальвенцано, Эмилия-Романья — 18 августа 1642, Болонья) — итальянский живописец, рисовальщик и гравёр болонской школы.



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